In Italia, la bistecca al sangue “per definizione” è quella alla Fiorentina. Nulla in contrario, ovviamente – anche se personalmente rimango dell’idea che pure altri tagli, come ad esempio il reale (che ricordiamo essere un anteriore), possano regalare delle emozioni più uniche che rare.
D’altro canto il Mondo è grande. All’estero, chiedendo una Fiorentina in ristorante, ci verrebbe presentata una ragazza di origini toscane! Scherzi a parte, tagli simili vengono definiti con nomi completamente diversi.
Avete mai sentito parlare di T-bone, porterhouse, rib eye o altro? Vediamole assieme.
Cos’è la bistecca alla fiorentina?
Per bistecca alla fiorentina si intende un taglio anatomico composto da osso (mezza vertebra tagliata “per il lungo”), muscolo di lombo e muscolo filetto. Il taglio è molto più spesso di quelli originari anglosassoni – poi acquisiti in America e in Australia, con relative modifiche.
Senza filetto è definita semplicemente “costata” – con l’osso, ovviamente.
La bistecca alla fiorentina ha origini incerte. Nel senso che, se da un lato è inoppugnabile che la sua diffusione all’interno del (futuro) Bel Paese abbia avuto luogo partendo dalla capitale mondiale del Rinascimento, dall’altro si ha modo di credere che i primi a diffonderne il consumo furono alcuni cavalieri inglesi proprio in visita a Firenze… ma a noi, tutto sommato, non interessa.
Cos’è la T-bone?
È una domandona. Anzitutto, “T” indica la forma dell’osso.
Sappiano i gentili lettori macellai che “non mi intrigherò” in una descrizione articolata sulla differenza di taglio tra noi italiani e gli inglesi, gli americani e gli australiani. Sarebbe una follia riassumerla semplicemente in poche righe.
Diciamo solo che la t-bone è una bistecca molto simile alla nostra fiorentina; usando i loro termini, essa include, oltre all’osso vertebrale tagliato, lo short loin (o sirloin) ed il tenderloin – quest’ultimo (filet mignon, se separato dalla bistecca), come la nostra fiorentina, è in misura variabile a seconda del punto di taglio.
In linea generale però, molto raramente la T-bone raggiunge dimensioni ragguardevoli; nelle steakhouse si servono prevalentemente bistecche inferiori al chilogrammo di peso – con mille e più eccezioni legate al territorio. In Italia invece, “si fa a gara a chi ce l’ha più grande!”
Cos’è la porterhouse?
Per gli amici americani la porterhouse sarebbe una T-bone ma “più ricca di filetto”, perché iniziata a tagliare dalla porzione posteriore dello short loin o sirloin.
Le dimensioni del filetto tuttavia, che fanno la differenza tra una e l’altra, sono ancora oggetto di dibattito. Forse perché questi tagli vengono consumati in tutti i Commonwealth Countries, Irlanda, Stati Uniti d’America.
Le specifiche istituzionali per l’acquisto di carne del “Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti” stabiliscono che il filetto di un porterhouse deve essere largo almeno 1,25 pollici (32 mm) nel punto più abbondante, mentre quello di un T-bone almeno (13 mm).
Tuttavia, nel linguaggio britannico (le prime tracce risalgono al 1800) e nei Commonwealth – ma anche in Australia e Nuova Zelanda –“porterhouse” acquisisce il significato di “bistecca americana con l’osso senza il filetto”.
Cos’è la ribeye?
Più diffusamente chiamata ribeye, è anche sinonimo di entrecôte.
Parliamo di una bistecca prelevata tra la sesta e la dodicesima costola, prima dello short loin e più precisamente nel “Rib”.
Contiene soprattutto il longissimus dorsi ma anche i muscoli complexus e spinalis.
Senz’osso, in America è anche chiamata genericamente “Spencer”.
Come si cucinano
Bene, siamo giunti al nocciolo della questione: come si cucinano questi tagli?
La risposta può essere semplice o complessa, a seconda di quante informazioni si vogliono apprendere.
Diciamo che tali bistecche si prestano soprattutto alle cotture veloci, su trasmissione diretta del calore, quindi al grill. La “morte” di questi tagli è l’uso dei barbecue a brace; senza nulla togliere, ovviamente, ai dispositivi BBQ a gas di alta gamma.
Non si commetta però l’errore di sottovalutare questo procedimento. In realtà, più è veloce, più è complicato azzeccarla. Inoltre, esiste una classificazione del grado di cottura che, per noi italiani, si suddivide in 3: sangue, media e cotta. Nei paesi più appassionati invece, sono almeno cinque.
È imperativo, almeno per chi non “cucina bistecche per mestiere”, usare il termometro sonda. Questo strumento ci permetterà di prevedere come apparirà il taglio anche senza “violentarlo” con una coltellata.
Risulta comunque necessario un pochino di esperienza, visto e considerato che la carne possiede la cosiddetta “inerzia termica”. Ergo: se tiro giù dal fuoco la bistecca a 47-48°C al cuore, essa continuerà a trasmettere calore dalla parte più esterna – quella a contatto con il calore di cottura – verso l’interno. Quanto? Dipende dallo spessore della carne, dall’intensità del calore esterno e dal tempo che ha impiegato per la cottura, dalla temperatura ambientale ecc. Si tratta di pochi gradi, da 2 a 4 circa, ma che possono fare una differenza abissale. Se da 47 passasse a 49°C, al cuore la bistecca sarebbe ancora dello stesso colore che da cruda; se da 48 passasse a 52°C, già cambierebbe.
“Sacrilegio” per chi taglia la carne appena tirata giù dal barbecue! È imperativo lasciarla riposare eseguendo un “rest” di circa 10 minuti. Infatti, la carne “scottata” dal calore intensissimo della griglia è tesa, contratta, per azione delle poche fibre collagene in essa presenti. Avvolgendola in poco alluminio in fogli sarà invece possibile far sì che si rilassi, evitando l’effetto di “strizzamento” che farebbe fuoriuscire tutti i liquidi muscolari – se però avete scelto una carne poco frollata non aspettatevi un miracolo!
Comunque! Ricordate sempre di sottoporre il taglio al famoso rest di 10’ in alluminio e… buona fiorentina a tutti!